Marco Boato - attività politica e istituzionale | ||||||||||||||||
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Trento, 12 maggio 2012 “Sentiamo ancora più fortemente il tormento di una giustizia incompiuta, ma non brancoliamo nel buio dell’Italia dei misteri, una verità storica si è conseguita”: con queste parole il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano – nel giorno della memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi (9 maggio) – si è rivolto in particolare ai familiari delle vittime delle stragi rimaste impunite, come Piazza Fontana a Milano (12 dicembre 1969), Piazza della Loggia a Brescia (28 maggio 1974) e il treno ‘Italicus’ a San Benedetto Val di Sambro (4 agosto 1974). Ma ha anche aggiunto: “Bisogna mettere in luce quello che di inconfutabile è emerso dalle carte processuali e dalle sentenze” (anche assolutorie per quanto riguarda le responsabilità personali degli imputati), e cioè “la matrice di estrema destra neofascista di quelle azioni criminali”. Nello stesso contesto il presidente Napolitano ha denunciato solennemente come vi sia stata in quegli anni “una attività depistatoria svolta da una parte degli apparati dello Stato”. Ha fatto dunque bene Paolo Morando, con due ampi servizi sul “Trentino” di lunedì 7 maggio 2012 (a due giorni dalla celebrazione del Quirinale), a ricostruire la drammatica vicenda dell’allora giovane anarchico bolzanino Paolo Faccioli, che pagò duramente la “pista anarchica” seguita sistematicamente dalla Questura di Milano (capo dell’ufficio politico era allora Antonino Allegra e commissario alle sue dipendenze era Luigi Calabresi) fin dagli attentati del 25 aprile 1969, che precedettero (insieme alle bombe sui treni del 9 agosto e ancor prima all’attentato allo studio del rettore Opocher a Padova del 15 aprile) la strage di Piazza Fontana a Milano. Per la strage fu accusato l’anarchico Pietro Valpreda (rimasto per anni innocente in carcere e assolto solo molti anni dopo) e fu sospettato l’anarchico Pino Pinelli, precipitato dal quarto piano della Questura milanese dopo tre giorni di fermo illegale (tutta la vicenda è stata ricostruita nel 2009 da Adriano Sofri nel libro “La notte che Pinelli”, Sellerio). Ha ragione Napolitanto a ricordare ancora nel 2012 “l’attività depistatoria svolta da una parte degli apparati dello Stato” e questa azione di depistaggio (ma anche di copertura e di complicità, come poi è emerso ad esempio per la strage di Peteano del 31 maggio 1972, oltre che per la mancata strage davanti al Tribunale di Trento del 18 gennaio 1971) era cominciata già prima della strage di Piazza Fontana, a cui si fa risalire l’inizio della strategia della tensione e delle stragi in Italia. “Quando Calabresi mi accusava di strage” e “Così il processo spazzò via il teorema della Questura” sono i titoli dei due servizi del “Trentino” che ricostruiscono drammaticamente questa vicenda attraverso la testimonianza di Paolo Faccioli. E da questa documentazione emerge chiaramente come – a fronte di una catena di attentati per i quali poi sono stati condannati i neo-fascisti veneti Franco Freda e Giovanni Ventura – la polizia e la magistratura milanese (giudice istruttore Amati) perseguivano invece sistematicamente gli anarchici (nella speranza anche di riuscire ad “incastrare” l’editore Feltrinelli). Ci vollero altri magistrati – Stiz e Calogero a Treviso, Alessandrini e Fiasconaro a Milano – per rovesciare la “pista anarchica” e per riuscire a far emergere almeno in parte la verità, sia storica che giudiziaria. Per questo mi lascia assai perplesso il filo interpretativo del recentissimo film “Romanzo di una strage” (del pur ottimo regista Marco Tullio Giordana), la cui tesi principale – quella della “doppia bomba” a Piazza Fontana (liberamente ispirata ad un discutibile libro di Paolo Cucchiarelli) – è stata proprio pochi giorni fa dichiarata destituita di fondamento, e quindi archiviata, da un supplemento di indagine della attuale magistratura milanese. Nel 2007, all’epoca del secondo governo Prodi, nella Commissione affari costituzionali della Camera fui uno dei proponenti della legge che istituì la “giornata della memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi”. Dal 2008 il presidente Napolitano ha interpretato al meglio lo spirito di quella legge, dando vita in questi ultimi cinque anni alle celebrazioni del Quirinale, in modo da far riemergere, insieme alla doverosa ma spesso dimenticata solidarietà con le vittime, la memoria storica dei fatti di terrorismo (di destra, di sinistra e anche di quello con complicità istituzionali), che rischiavano di scomparire in un oblìo confuso e indistinto. Già il 30 settembre 1967 Trento aveva conosciuto il sacrificio dei due sottufficiali della Polfer Filippo Foti e Angelo Martini, mentre tentavano di allontanare dal treno “Alpen-Express” una valigia esplosiva, di cui rimasero essi stessi vittime, salvando col loro generoso sacrificio personale molti passeggeri (nel 1974 la tragedia si verificò realmente sul treno “Italicus”, diretto al Brennero, e anche quella strage è rimasta impunita). Per anni, da parlamentare, avevo mantenuto i contatti col figlio di Martini, Paolo, poi sciaguratamente morto lui stesso in un incidente stradale, senza aver mai potuto avere giustizia per la morte di suo padre e del suo collega Foti. E ha fatto bene, nel giorno della memoria, Lorenzo Dellai a ricordare anche Fausto Tinelli, un giovane trentino assassinato a Milano il 18 marzo 1978 (nei giorni drammatici del sequestro Moro) insieme al suo compagno Lorenzo ‘Iaio’ Iannucci: anche in questo caso due vittime della violenza politica, che non hanno mai avuto giustizia (“pur con significativi elementi indiziari a carico della destra eversiva”, ha scritto nel 2000 il Gup Clementina Forleo). Ed è stato molto bello che in questo 9 maggio, per la seconda volta (dopo il 9 maggio 2009, nel quarantennale di Piazza Fontana) un gruppo di giovani trentini, autori di due volumi finalizzati proprio a mantenere viva la memoria storica e le testimonianze personali, siano stati tra i protagonisti della cerimonia al Quirinale, anche con l’intervento pubblico di Anna Brugnolli, in loro rappresentanza. Come è stato bello e importante che a “condurre” l’incontro presidenziale sia stata Silvia Giralucci (che ho conosciuto bene a Padova, per il suo impegno di volontariato nel carcere con “Ristretti orizzonti” di Ornella Favero), figlia di Graziano Giralucci, il quale, insieme a Giuseppe Mazzola, fu la prima vittima di un duplice omicidio ad opera delle Brigate rosse il 18 giugno 1974. Silvia ha scritto l’anno scorso un libro, “L’inferno sono gli altri” (Mondadori), dedicato a ricostruire le drammatiche vicende padovane degli anni ’70, che ricordo per esperienza diretta, avendo insegnato in quegli anni all’Università di Padova. Anche Benedetta Tobagi (lei pure citata da Napolitano) ha scritto un libro sulla tragica vicenda di suo padre Walter, il giornalista del “Corriere della sera” assassinato a Milano 28 maggio 1980: “Come mi batte forte il tuo cuore” (Einaudi, 2009). Silvia aveva un padre di destra (lei non lo è, ma lo ricorda con amore), Benedetta aveva un padre socialista, entrambe piccolissime all’epoca dell’omicidio dei loro genitori. Ed oggi sono capaci di affrontare con determinazione, ma senza rancore e risentimenti, l’obbligo della memoria e sono davvero l’esempio di una più giovane generazione, che ha saputo uscire con dignità, ma senza cedere all’oblìo, dal tunnel degli anni di piombo. Una lezione che anche le generazioni ancor più giovani – ne è dimostrazione l’esperienza trentina di Anna Brugnolli e dei suoi amici – hanno saputo cogliere, per un’opera di pacificazione della memoria, che sia l’opposto della colpevole rimozione. Marco Boato
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MARCO BOATO |
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